Le donne dei marinai
Le donne dei pescatori erano dedite a molteplici attività oltre quella, prevalente, della cura dei figli e della casa. Fra queste, quella della vendita del pesce pescato dai marinai del porto era sicuramente la più impegnativa; sicché tutti i giorni, in cui le condizioni del tempo consentivano agli uomini di andare a pesca dedicandosi ai vari “mestieri” (lambara, rizzi i funnu, coffe, scavicheddu, ecc.) a loro toccava un gravoso compito. Quando, ad esempio, i pescatori tornavano dalla lambara, Marina (moglie di Biasineddu), Luisa (moglie di Cilarduzzu ), Tresina ì Sceru (madre di Luisa), Maria Felice Iannini (detta Filici à surda) e altre donne di Maratea paese, si portavano presso le barche chiedendo al capopesca, per esempio zù Monicu, una o più cassette di alici (vedi documenti nella sezione pesca “la lambara”) in funzione di quanto pensassero di smerciarne in giornata. Il quantitativo di pesce acquistato non veniva pagato seduta stante, bensì annotato sui “libri contabili” del proprietario della lambara che sommava, giorno dopo giorno, quanto consegnato a ciascuna venditrice fino a quando, passata una settimana o dieci giorni, questa veniva chiamata a chiudere i conti.
Di solito l’operazione coincideva con il momento in cui il capopesca aveva stabilito di pagare i marinai. Nelle foto di un documento dell’epoca si può notare che l’intestazione riportava la data del giorno di pesca (es. 2/08/1951 , il numero di pescatori e delle luci impiegate, nonché il prezzo di vendita al chilo (es. sessanta lire). Seguivano poi i nomi degli acquirenti accanto ai quali erano riportate le quantità e le relative somme. Dalle foto si evince, confrontando le due intestazioni, come, dal 1951 al 1956, il prezzo sia lievitato da sessanta a centodieci lire. Le alici prese dalla barca venivano poste dalle donne in ceste di vimini con il fondo opportunamente impermeabilizzato, le cosiddette “canniste”, che si ponevano sul capo non prima di avervi posto una “kruna” di stracci per ammortizzarne il peso. Con la cesta sul capo si avviavano a piedi, verso le frazioni di Maratea inoltrandosi, spesso, fino a Trecchina o Lauria.
Ciascuna delle venditrici aveva, per così dire, una propria clientela da cui non sempre riceveva, specie in tempo di guerra o negli anni immediatamente successivi, soldi in cambio di merce ma anche prodotti della terra, uova, formaggi ecc. Altra attività cui si dedicavano le mogli e le figlie dei marinai era quella dei “libbani”. La pratica consisteva nell’intrecciare un particolare tipo di erba, detta “tagliamani”, per ricavarne corde vegetali che poi venivano usate per l’allevamento delle cozze e anche nella pesca quotidiana. Le donne andavano a raccogliere l’erba alfa (tagliamani) e poi la mettevano in grossi recipienti pieni d’acqua per farla ammorbidire e, infine, la battevano (ammazzuccàvano) con una grosso randello di legno (mazzòccula) per renderla idonea alla realizzazione della corda.
Quante volte nella “cuntrura” si sentiva battere ritmicamente la “mazzòccula” sul fascio d’erba!! I libbani ultimati venivano portati a Tetella o ad Antonio Alfieri i quali avevano il compito di smerciarli ai gestori degli allevamenti di mitili che, con grosse barche, li mandavano a ritirare sulla spiaggia del Porto. Questa era la vita che le donne svolgevano negli anni quaranta – cinquanta. Zia Giuseppina e mamma Rosa, da cui ho attinto le informazioni, si dicono sicure di non voler cambiare, quel periodo della loro vita, benché fatto di miseria e lavoro, con quello attuale. Pur avendo il sospetto che forse rimpiangano più la giovinezza di quegli anni che il resto, mi trovo assolutamente d’accordo con loro.
Ottimo lavoro!