Una strana pescata
Sul finire degli anni Sessanta e gli inizi del decennio successivo, al Porto di Maratea, si praticava una pesca affascinante e avventurosa se non altro perchè le auspicabili catture, oltre a pescespada di notevole taglia, potevano essere costituite da tonni il cui peso riusciva spesso a superare i quattrocento chili. Il mestiere era costituito da coffe che si andavano a calare a dieci, dodici miglia a largo del porto dove, a quei tempi, non era difficile imbattersi nel passaggio migratorio verso il Tirreno Settentrionale delle suddette specie pelagiche. Avendo sentito parlare spesso di questa pesca, e avendola pure praticata, sebbene solo una volta, ho chiesto ad Aldo Fiorenzano, quale facente parte stabile della “chiurma”, di raccontare un episodio tale da rendere un’ idea, almeno verosimile, dello svolgimento della stessa.
Nel primo pomeriggio di un giorno di giugno del millenovecentosettantadue l’Iskra lascia il porto di Maratea per andare a calare le coffe con una “chiurma” composta dai fratelli Pasquale, Matteo e Gabriele Schettino, Aldo Fiorenzano e Pinuccio Possidente. L’Iskra – che in russo significa scintilla – era una barca di nove metri motorizzata con un sessanta cavalli e di proprietà di Matteo. Il “ mestiere” era costituito da una coffa in nylon da 160 ami armata a 40 passi (ogni bracciolo dista dall’altro circa 70 metri) con un “letto” – ossia il filo principale della coffa – da 160 e braccioli da 120, messi a doppino, e terminanti con un amo grosso quanto una mano. Per esca lacerti del peso di tre quattro etti ciascuno.
Dopo un paio d’ore di navigazione verso il largo, raggiungemmo l’acqua di cala, la prima bandiera di segnalazione posta in mare. In corrispondenza di ogni amo legavamo, come galleggiante, una bottiglia vuota tipo candeggina da un litro e ogni cinque sei bottiglie mettevamo un bidone di plastica da cinque litri o un pallone da calcio in gomma “Supersantos” (quelli arancione che usavamo per le interminabili partite a calcio sulla spiaggia) in modo tale che la coffa “ pescasse” sempre a galla . L’operatività per filare la coffa in acqua era la seguente: Matteo calava a mare, Aldo innescava e Gabriele legava la bottiglia sul bracciolo. Più o meno a metà coffa si legava una seconda bandiera e, dopo centosessanta innescate si calava la terza e ultima bandiera. Una volta legata la seconda estremità della coffa alla barca si restava “in corrente” a motore spento.
Quella sera di giugno finite le operazioni di cala, a buio sopraggiunto e dopo aver acceso una lampada a carburo, ci si accingeva a consumare la cena solitamente costituita da una mega insalata di patate, pomodori e altre verdure accompagnata da formaggi vari e innaffiata da abbondante vino. Durante la cena, sotto il cielo stellato, si discuteva della battuta di pesca e se il nostro “mestiere” potesse in qualche modo interferire con quelli calati dai siciliani, le cui luci vedevamo in lontananza. Normalmente verso le ventidue e trenta si andava a dormire sottocoperta mentre uno di noi, a turno, restava di guardia. Questa necessità era dettata dal fatto che si pescava in prossimità della rotta delle navi che da Napoli andavano verso Palermo e viceversa, nonché sulla rotta battuta da due enormi pescherecci d’altura che, con il loro strascico, potevano agganciare la nostra coffa. Il primo turno quella notte, toccò a Gabriele, quindi ad Aldo, Matteo e Pasquale.
Verso le quattro suonò la sveglia e dopo il caffè e una sigaretta, iniziammo a recuperare la coffa. Il recupero rappresentava il momento più difficile e pericoloso in quanto la possibilità che un tonno potesse abboccare durante l’operazione non era cosa improbabile. Un tonno di due o tre quintali, una volta abboccato, si dirige verso il fondo ad una velocità di oltre ottanta chilometri l’ora per cui si può immaginare in che modo, la parte di coffa appena salpata, possa tornare in acqua . Per questo motivo chi si trova impegnato a mettere a bordo la coffa corre il gravissimo pericolo di essere agganciato da un amo e trascinato sul fondo dal pesce.
Da qui la necessità di avere a portata di mano un affilato coltello per poter tagliare gli ami dai rispettivi braccioli prima che questi tornino in acqua a velocità spaventosa. L’alba non aveva ancora presentato il nuovo giorno che, dopo aver salpato i primi cinquanta ami senza alcuna cattura, la coffa anziché venire dalla superficie veniva dal fondo: segno inequivocabile che un pesce aveva abboccato. Un bell’esemplare di pescespada di una trentina di chili. Dopo pochi ami, con nostro grande stupore, ci accorgemmo che il letto della coffa era spezzato!!!!
Non ci restava altro da fare che attendere che il sole si alzasse ancora tanto da consentirci di iniziare la ricerca delle altre due bandiere rimaste, nel tentativo di riuscire a recuperare la restante parte della coffa. Dopo un po’ di tempo scorgemmo la bandiera e, nell’avvicinarci, notammo che la stessa si muoveva a confermarci che era trainata da un grosso pesce. A bordo scattò l’allarme, ognuno prese il suo posto per iniziare la battaglia che si prevedeva lunga e pericolosa.
La coffa non risultava più allineata ma un inestricabile groviglio di nylon, ami, palloni e bidoni che si muoveva velocemente davanti alla barca. La prima cosa da fare, in questi casi, è di evitare che parte del groviglio, durante l’operazione di recupero, possa finire nell’elica. Con mille precauzioni riuscimmo ad agganciare un doppino dell’ammasso di filo cominciando a salpare il groviglio, avendo cura di tagliare gli ami benché il pesce, che dimostrava notevole vitalità, ci costringeva a rimollare tutto in acqua. Dopo vari, infruttuosi tentativi, decidemmo di cambiare strategia.
Ci dirigemmo direttamente sul pesce: un tonno di dimensioni enormi stimato di quattro, cinque quintali. La bestia, malgrado trascinasse quell’ammasso galleggiante che gli impediva di andare verso il fondo, stazionava a più di qualche metro sotto il pelo dell’acqua. A quel punto l’unica speranza di cattura era riposta nell’arpionarlo in modo da fargli perdere sangue e, conseguentemente, forza avendo così buone probabilità di issarlo a bordo.
Pinuccio sfilò l’arpione dalla custodia e si portò a prua. Senza dire una parola, tra lo sbigottimento generale, si lanciò verso il tonno brandendo l’arpione, lo colpì e, senza lasciare la presa venne trascinato dall’enorme pesce per un buon tratto fin che ebbe fiato. Dopo un attimo di panico dirigemmo l’Iskra verso il punto in cui Pinuccio emerse per cercare di metterlo in salvo.
La concitazione del momento e il terrore che il pazzo potesse, in qualsiasi istante, essere agganciato da un amo non ci fece accorgere che, nella manovra, una parte della coffa si era impigliata nel timone offrendo così una resistenza al tonno tale da consentirgli di liberarsi. Recuperammo Pinuccio non senza averlo aspramente redarguito per aver compiuto un gesto che, oltre ad avere messo a repentaglio la sua vita, poteva costituire pericolo per la libertà del resto della “chiurma”.
Pertanto dopo aver tratto a bordo il groviglio per recuperare il possibile (ami, bidoni ecc.) ci avviammo mestamente verso il porto. Passò circa un’ora, nel più assoluto silenzio, prima che uno di noi riaprì il discorso chiedendo a Pinuccio il perché di tale gesto sconsiderato. Ci rispose che lo aveva fatto spinto dalla rabbia essendo ben consapevole che la lotta intrapresa con quel “mostro” fosse impari e che, come tante altre volte, l’avrebbe vinta lui. In effetti, durante gli anni in cui abbiamo fatto questo tipo di pesca, le sconfitte sono state tante al pari dei pericoli corsi.
Ci sono state però molte occasioni in cui la battaglia ebbe diversa sorte consentendoci di portare a terra tonni enormi (vedi foto) e ciò ci dava la forza e il coraggio di continuare questa affascinante, mitica lotta con il mare.
Sono rimasta affascinata da questo racconto.E’ come se leggendolo mi fossi catapultata anche io con voi su quella barca.Storie di pescatori…..che spettacolo…tutti i ragazzi di Maratea dovrebbero fare esperienze simili o comunque leggere di questi racconti spettacolari!!!!!!!!!!!!!!!grazie