I Purcili

 

Fino alla metà degli anni sessanta ogni famiglia di pescatori del Porto possedeva un porcile in cui alleva un maiale che, specie durante la guerra, costituiva una fonte imprescindibile di sostentamento durante tutto l’anno,visto che tutte le parti dell’animale venivano lavorate e conservate in vario modo.I porcili  erano ubicati nel Crivo (Giuvannuzzi, Tresina ì Sceru, Nasiceddu, Sarchiapollu), sulla Timpa (Beniamino, a Pizzuta e Frastina) o” inta à chiana, ‘ncoppa ù muragliuni” dove è adesso la strada (prima era un viottolo sterrato) che porta alla chiesa, vi era quello di zà Lucia.

Le altre famiglie dei marinai, e non solo, avevano i porcili lungo le scale che attualmente portano alla Panoramica ( Tridicicocci, Lemmo, Vicenza ì pulacca e à Vurpacchia). Solitamente, in una delle fiere di animali che si tenevano sul territorio, veniva comprato un maialino che, a seconda delle preferenze, poteva essere di razza toscana, casertana ecc,  poi veniva messo all’ingrasso nel porcile. L’animale veniva nutrito con “u viviruni” (beverone) un miscuglio abbastanza liquido, contenente farina di granturco, acqua e avanzi di frutta quali bucce di mela, pera, cocomero ecc. e con carrube, ghiande o chicchi di granturco (granudignulu).

Vi era quasi una gara, tra le famiglie dei marinai, per chi riusciva a “produrre” il maiale più grasso che, nell’arco di un anno di vita spesso superava il peso di un quintale e mezzo e oltre. Il periodo per la macellazione era,di solito, compreso tra metà gennaio e metà febbraio in modo che il clima favorisse la conservazione dei salumi (zazicchi , zuprissati, prisutti, virrinia, capicoddi) e di tutte le altre parti del maiale di cui, visti i tempi e la fame non si buttava assolutamente nulla.

Con il sangue si faceva il sanguinaccio o una specie di “salume” condito con pinoli e uva passa, i piedi, le orecchie e le cotenne, venivano conservate per essere aggiunte ai fagioli o alla minestra cotta. Quando “s’avita accìdi ù porcu” era una vera e propria festa (tranne che per il condannato) che iniziava di buon mattino per preparare la scena del delitto. Veniva messo sul fuoco un grosso recipiente (ù cavudaru) per mettere a bollire l’acqua,che sarebbe servita poi per “scotennare” il maiale, e tutti gli attrezzi utili all’operazione: coltelli di vario tipo, primo fra tutti “ù scannaturu” (un lungo e affilatissimo punteruolo con cui si uccideva, in pratica, il maiale infliggendogli una coltellata in gola per recidere la giugulare in modo che dalla ferita potesse sgorgare il sangue, il più rapidamente possibile, per essere raccolto in una bacinella). Veniva altresì approntato un pezzo di legno a forma arcuata  detto (“gammeddu”),  su cui,mediante delle funi e

delle carrucole (“rocciuli”) veniva appeso il maiale per essere lavorato. Alle “operazioni”, oltre alla famiglia del marinaio, proprietaria dell’animale, erano presenti quelle dei vicini o gli altri marinai facenti parte della stessa “chiurma” (ciurma) con il consueto seguito dei figli che,oltre allo “spettacolo”, non aspettavano altro che partecipare al pranzo di fine ostilità. Ma chi non poteva mancare era certamente Limongi Antonio detto “Tagliacapu” (vedi sezione I Marinai) che era il marinaio addetto sia a “scannare” il maiale che a preparare la carne per il confezionamento delle salcicce e delle altre parti. Solitamente Tagliacapu era quasi sempre brillo, ma quando doveva dedicarsi al lavoro di “macellaio” non accettava di bere fino a quando il lavoro non era finito anche perché, dopo il “delitto”, durante il pranzo che ne seguiva, si rifaceva con gli interessi.

Mentre fervevano i preparativi per la macellazione  il proprietario del maiale e alcuni volontari andavano a prelevare il “condannato” nella “zimma” (porcile) invitandolo a seguirli cospargendo la strada di granturco ma anche con modi meno gentili. Il povero porco non era molto collaborativo in questo suo ultimo viaggio tanto che emetteva un suono stridulo e via via più acuto man mano che si avvicinava al “patibolo”. (l’istinto animale non gli faceva presagire niente di buono). Una volta giunto sul posto, quattro e più uomini (a seconda della taglia) lo convincevano a sdraiarsi, immobilizzandolo, per dar modo a  Tagliacapu di procedere tra il verso del maiale (sempre più acuto) e le grida dei bambini presenti (che si condendevano il “privilegio” di poter tenete la coda del maiale in modo da collaborare in modo fattivo alla sua macellazione.

Sicuramente tutta la cruenta scena non era consigliabile ai deboli di stomaco o agli animalisti ma prima, durante e dopo la guerra quello era il modo di macellare il maiale; d’altronde gli animalisti sono venuti dopo. A proposito di “scanna ù porcu” mio zio Beniamino mi ha raccontato un episodio che ha dell’incredibile. Si doveva macellare il maiale d’à Pizzuta (un esemplare di oltre due quintali) davanti a “putia” (bottega) i Tetella ovvero sulla parte della spiaggia a ridosso delle case.In  luogo di Tagliacapu, non si sa per quale motivo si offerse ad eseguire l’operazione Biasi  Pàcciu (vedi sezione Storie I Giuvannuzzi) non senza suscitare le perplessità dei presenti.

Non essendoci modo di dissuaderlo si procedette fino a che Biagio non affondò la lama nel collo della bestia non riuscendo, tuttavia, a recidere la giugulare. A questo punto il maiale si scrollò di dosso quelli che lo tenevano fermo iniziando a correre ,con il coltello penzoloni, per tutta la spiaggia, inseguito dagli attoniti marinai. L’inseguimento dovette continuare via mare perché il porco (nel senso buono) si buttò in mare prendendo la direzione della grotta d’ I Monacelli dove fu catturato dagli inseguitori che intanto avevano messo in mare una barca. Còsi da pacci è il caso di dire.

Una volta defunto,il maiale veniva issato con le funi sul “gammeddu” in modo che Tagliacapu potesse tagliare la testa per poi dividere in due parti, verticalmente, il corpo dell’animale. Venivano prelevate le parti interne: polmoni e cuore, per il soffritto, e il fegato da fare con la “zippa” e infine gli intestini che,opportunamente lavati e trattati, sarebbero serviti poi per confezionare i salumi. Completate tutte le operazioni, poteva iniziare ciò che tutti aspettavano con impazienza: il pranzo! La portata principale erano i “ziti spizzati” conditi con il ragù per poi proseguire con vari secondi tra cui “ù vuccularu” (guanciale) del maiale appena macellato, fritto il tutto abbondantemente innaffiato da vino rosso.

Il rito della macellazione del maiale era, nella comunità marinara del Porto, una delle “ricorrenze” per concedersi una parentesi di festa che veniva a spezzare la quotidiana fatica dei pescatori con il mare  e delle donne coi “libbani” e l’accudimento della casa.

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