Viaggio
VIAGGIO DA NAPOLI AL PORTO CINQUANT’ANNI FA…
Non sempre succede di avere un colpo di fortuna. Figurarsi due. Io li ebbi entrambi poiché nacqui a Napoli, ultimo di cinque figli, da madre marateota e portaiola (nell’imprinting conta la discendenza materna anche se a dispetto del cognome); sgravato in casa a Largo Due Porte all’Arenella. Il panorama sul porto di Napoli si apriva sotto il declivio di una collina ricca di coltivazioni di ortaggi e vegetali, pascolo di vacche da latte e altri animali da cortile: un piccolo paradiso non ancora minacciato dalla incombente Tangenziale.
Perciò l’infanzia poté scorrere felice nonostante motivi di lavoro di papà ci portarono a Secondigliano, località ancora bucolica, ma non esattamente con gli stessi panorami densi di brezze marine e odori di terra appena arata. Di fatto si trascorrevano in città i lunghi periodi invernali – quelli scolastici per intenderci – e tutte le vacanze, incluso tutto il periodo da fine maggio a inizio ottobre, al Porto. La nostra esistenza, soprattutto la mia, nel mio personalissimo ricordo, era compresa fra le attese di partenze da e per Maratea; il resto era una parentesi quasi insignificante se non fosse stato per l’altra fortuna: essere nato e vivere a Napoli.
Si partiva all’alba, e mai, quei risvegli pronti e felici, si sarebbero replicati per una qualsiasi altra evenienza nell’anno. I bagagli erano pronti già dalla sera prima, ordinati nel corridoio e nell’ingresso. Ancora oggi non mi posso capacitare come potesse, tanto carico, umano e materiale, stare in una Fiat Millecento del ’69. Una colazione veloce, una zuppetta di pane e latte, e già si era pronti a scendere in garage per sistemare il bagaglio; poi l’incastro umano si componeva con perizia sotto le indicazioni del driver (mio fratello Antonio metteva dei guanti per avere buona presa sul volante sottile e scivoloso: erano mezze dita di pelle scamosciata sul palmo e una rete di cotone sul dorso della mano). Sul sedile posteriore, nel posto dietro il guidatore stava mia madre e, in ordine sparso, le mie sorelle e mio fratello (credo si contendessero il posto vicino al finestrino). Io davanti, in braccio a mio padre, a fianco del guidatore. Insomma, verso le sei eravamo già verso Calata Capodichino poi, piazza Ottocalli, via Arenaccia, piazza Garibaldi e corso Arnaldo Lucci che, finalmente, dava sull’imbocco dell’autostrada Napoli – Salerno. Ricordo perfettamente la scritta bianca, sotto il primo ponte: “TENERE LA DESTRA”.
Preso il biglietto al casello si inanellavano in sequenza gli attraversamenti di Ercolano, Torre del Greco con le falde del Formidabil Monte a portata di mano, Torre Annunziata e Castellammare di stabia (ottimi i biscotti dei fratelli Riccardi e bella ed elegante la confezione a parallelepipedo blu e marchio giallo obliquo) con a destra la Penisola Sorrentina che si perdeva sulla lontana Capri. Si lasciava la costa per addentrarsi nell’Agro Nocerino: Pompei, Scafati, Angri, Pagani con la strada che porta al valico di Chiunzi (verso Tramonti e Amalfi), infine Cava de’ Tirreni prima di rivedere il mare di Vietri e pagare al casello di Salerno.
Lì non mancava mai il ricordo di un detto campanilistico sulla città del golfo: “se Salerno avesse il porto Napoli sarebbe morto” (forse se ne ricordava mia madre…chissà dove l’aveva sentito…). Intanto in macchina si cantava, meglio, cantavano mia madre e le mie sorelle (forse per questo motivo mio fratello convinse mio padre a montare uno stereo sulla macchina che sostituì la Millecento del ’69): canzoni napoletane, per lo più, poi Battisti, gli Alunni del Sole e un certo cantante greco, Demis Roussos. Non mi ricordo soste particolari: avevamo tutto con noi compreso il caffè in uno di quei vecchi thermos color argento zigrinato. Al limite ci si fermava in piazzole di sosta, per i bisogni più urgenti in un viaggio che comunque non andava oltre le quattro ore, fermate comprese.
Da Salerno si riprendeva di nuovo il panorama terrestre, verso Battipaglia, Eboli (non ci si fermava essendosi già fermato il Cristo di Carlo Levi), Contursi Terme, Sicignano e il suo bivio verso Potenza e Polla dopo la quale si apriva, nel suo luminoso splendore, la fertile campagna del Vallo di Diano bagnata dal fiume Tanagro. Un lunghissimo rettilineo tagliava in due la valle con a sinistra Atena Lucana, Sala Consilina, Padula e la bellissima certosa e Montesano; a destra Teggiano, Sassano e Buonabitacolo.
Poi si saliva verso il bosco di Lagonegro con il paese presepe di Casalbuono. Verso i primi anni Settanta, quando ancora non era possibile uscire a Lagonegro, si usciva a Casalbuono e si percorreva la SS 19, il cosiddetto Fortino, dove non era raro trovare traffico e incidenti (ne ricordo uno in particolare: un camion che trasportava arance si ribaltò in una curva: tutti fermi…a mangiare frutta a sbafo). La tanto agognata fondovalle del Noce arrivava fresca d’estate e gelata d’inverno (in macchina ci si copriva con scialli e copertine).
Il bivio per Trecchina e poi Lauria…infine Castrocucco e la SS 18 a rivedere il mare e l’isola di Dino. Ancora una decina di chilometri mi avrebbero separato dalla riconquista di una libertà, lasciata qualche mese prima, fra scogli e timpe del Porto. Marina di Maratea, il primo colpo d’occhio sul Cristo svettante sul Golfo di Policastro, poi Malcanale, Santo Janni e la salita verso Filocaio…poi, dietro la Torre, la curva che apre la vista sul Porto.
Si scendeva dalla macchina leggermente rattrappiti ma bastava la prima boccata d’aria di paese a far passare ogni pena: una corsa liberatoria verso la nonna Marina, gli zii e i cugini, sanciva il ritorno alla Natura più intima del sé! Non si perdeva troppo tempo, almeno io, in quanto più giovane, dopo i saluti di rito, ero già in cerca degli amici che sicuramente, da qualche parte, mi attendevano per riprendere il gioco interrotto qualche mese prima. In questa ricerca si incontrava, non di rado, qualche personaggio.
Scendendo le scale verso la spiaggia, ci si poteva imbattere, davanti al suo fondaco, in Zu Monacu il rais del Porto: un saluto reverenziale era d’obbligo, per rispetto e per carisma. Poi si faceva una scappata da Tetella, ‘na putìa (dal lat. apotheca, gr. ἀποϑήκη, der. di ἀποτίϑημι «riporre»; cfr. bottega): stesso saluto ricompensato immediatamente con cioccolato e caramelle. In cammino sulla scalinata vicino alla bottega, si poteva trovare, col suo andamento ondulante, Ciccillu lentu lentu, sofferente di epilessia (dal lat. tardo epilepsĭa, gr. ἐπιληψία, propr. «attacco», der. di ἐπιλαμβάνω «sorprendere»).
Tale affezione è chiamata anche mal caduco, perché chi ne soffre cade e soffre spasmi. Non era insolito trovare Ciccillo in preda alle crisi epilettiche, in giro per il borgo. Dice Isidoro da Siviglia nel suo “Etimologie o origini”: “L’epilessia è chiamata inoltre morbus comitialis, il che significa malattia dei comizi, …: la sua forza è così grande che un uomo vigoroso crolla al suolo e lascia uscire bava dalla bocca”. Salendo verso la stazione, in cerca di Franco, incrociavo Za’ Tanella, la donna più pacata e serena che abbia mai conosciuto, moglie di Zu Pascali, uno dei fratelli di mia nonna Marina. Virando poi verso il Crivo in cerca di Tonino, salendo verso l’altro punto di aggregazione e gioco, ossia la chiana, si passava obbligatoriamente davanti alla casa ‘i Tresina ‘i Sceru, una cara vecchietta che era sempre impegnata in una qualche attività. La chiana era un pezzo di terra coltivata a ulivi, nient’altro che un terrazzamento con limiti di muri a secco.
Fra gli alberi si alternavano il gioco del calcio, la costruzione di capanni e, soprattutto, la scelta del materiale adatto a costruire fionde resistenti e maneggevoli. In estate la nostra palestra era la spiaggia del Crivo, dove si alternavano con instancabile movimento, il nuoto, la pallanuoto, la pallavolo, il calcio e le piramidi umane. Qualche volta anche il rugby, con palla sferica. In inverno si praticava esclusivamente il calcio, prima sulla banchina non ancora asfaltata, con sommo piacere per gambe e ginocchia, poi nel campetto su capo la Timpa, il nostro stadio.
Così si arrivava a sera stanchi morti ma con un cuore ebbro di felicità e la consapevolezza, adesso più vivida che allora, di aver ricongiunto la natura più intima del sé a quella più generica e comprensiva che si definirebbe genius loci.
Ciao caro Franco un altra bella storia di quel periodo indimenticabile che raffrontato a periodo di oggi evidenzia i cambiamenti di un borgo vivo di allora a uno silente e quasi deserto di oggi specialmente in questo momento.
E come dimenticare le ore compressi in un’Innocenti I4 con tanto di portapacchi sul tetto che bisognava, alla bisogna tenere con la mano dal finestrino per paura che la macchina del gas,che si portava alla nonna, nella salita sconnessa del Fortino scivolasse rovinosamente! Ci volevano 24 ore per riprendersi da simili viaggi per me particolarmente penosi a livello di stomaco, ma si veniva ripagati immediatamente dagli odori, dall’azzurro del mare in cui si tuffava un disco arancio all’orizzonte, dall’aria salmastra, dalla campagna verdeggiante e da un profondo, viscerale senso di libertà.