Padressalerno
Nella sezione dedicata alla vita del borgo marinaro del Porto di Maratea, non si può non parlare di una figura carismatica che ha segnato un trentennio della storia della comunità: padre Raffaele Salerno da Foggia. La frazione porto, fino a tutto il 1955, non era sede di parrocchia, per cui nella chiesa di Maria SS di Portosalvo le funzioni venivano officiate, a turno, da uno dei Padri Oblati la cui sede principale era a Maratea centro. La parrocchia, comprendente le frazioni di: Porto, Fiumicello, Marina e Castrocucco, venne istituita nel 1956 e affidata alle cure di padre Salerno, uomo di media statura con un carattere burbero e autoritario, per niente incline al compromesso.
Con molta probabilità a questi tratti caratteriali non giovò il fatto che soffrisse di ulcera, la quale cosa finì spesso ad inasprire il suo modo di relazionarsi. Tra le doti comunque presenti nel personaggio spiccavano quelle artistiche, essendo egli sia insegnante di musica che di disegno, e la capacità di aggregare i giovani da cui,peraltro, esigeva comportamenti sempre adeguati alle circostanze e la capacità, come vedremo più avanti, di interpretare, e quindi eseguire, ogni suo cenno: ogni errore veniva sottolineato con un sonoro ceffone e sintetici e svariati epiteti, che si era costretti ad assorbire in silenzio onde evitare, una volta a casa, di avere il “resto” dai genitori.
Altri tempi….. in tutti i sensi. La chiesa del Porto non era come si presenta oggi ma aveva, entrando sulla destra, una scala che conduceva ad un soppalco su cui era posizionato l’organo. Quante volte, specie durante le festività natalizie o pasquali facevamo la corsa per seguire la messa da “ncoppa a l’orghinu” dove, essendo in molti e tutti molto vivaci, non riuscivamo a seguire la funzione nel modo più appropriato tanto che Padressalerno era spesso costretto ad alzare lo sguardo per lanciare occhiate di fuoco e borbottare qualche improperio.
L’Altare era rivolto verso il muro e non, come oggi, verso i fedeli e, dietro di esso, vi era l’ingresso della sagrestia. La canonica, invece,era accessibile sia da una scala esterna alla sagrestia, che dalla fine di via Racia. In essa il parroco radunava i giovani che avevano la possibilità di trascorrere i pomeriggi a giocare, prima delle funzioni serali, a calcio balilla o su un piccolo biliardo con al centro dei birilli fissi e le buche agli angoli. Quando arrivò al Porto Padressalerno (come lo chiamavano tutti accentuando la “s” del cognome), usava come mezzo di locomozione una Lambretta, in seguito comprò una Fiat Topolino, poi una Fiat Seicento, una Prinz e quindi una Autobianchi A112. Dopo poco tempo dal suo arrivo, organizzò il primo gruppo di chierichetti dividendoli, a seconda della fascia di età e dai più piccoli ai più grandi, in “fiamme bianche, verdi e rosse”.
I chierichetti dovevano servire Messa ogni mattina prima di andare a scuola e partecipare alle principali funzioni. La “presenza” veniva registrata su un cartoncino dallo stesso parroco che effettuava una specie di pinzatura tipo quella che faceva il controllore delle ferrovie sul biglietto del treno. Il completamento delle pinzature sul cartellino dava la possibilità di avere in regalo un giocattolo che Padressalerno custodiva in un armadio nella stanza attigua a quella del biliardo dove, nel periodo natalizio, si trascorrevano le serate giocando a tombola. Solitamente il chierichetto più presente risultava Michele Tocci detto “’u lupu”, in quanto oltre ad abitare nelle immediate vicinanze della chiesa, non poteva sfuggire alla marcatura della nonna, “’a pizzuta”, che ogni mattina lo tirava giù dal letto in tempo utile.
La vita di noi ragazzi agli inizi degli anni 60, oltre che dalla frequentazione della scuola, quella elementare alla stazione e quella media in paese, era contrassegnata da queste attività: interminabili partite a pallone sulla spiaggia; inventare rudimentali giochi quali una specie di macchinina costituita da una tavola in legno con applicati due assi alle cui estremità, a mo’ di ruote, erano installati quattro cuscinetti a sfera; partecipare alla preparazione delle varie liturgie annuali (Natale, Pasqua, benedizione delle case, festa della Madonna di Portosalvo ecc) organizzate con cura maniacale da Padressalerno.
Ovviamente non era facile derogare o far finta di non aver capito le direttive del burbero prete anche perché, subito dopo aver pronunciato la consueta imprecazione (“miseriaccia infame!”) era già in rampa di lancio un sonoro schiaffone; certo che per noi ragazzi tra preti maneschi , maestri severi e propensi a prendere esempio dai preti, e genitori che davano… “il resto” non ce la passavamo certo bene… Padressalerno, forte delle sue vocazioni artistiche, sempre con l’aiuto dei chierichetti, si dedicava alla manutenzione della chiesa compresa la tinteggiatura. In una di queste occasioni accadde un episodio rimasto negli annali dei racconti paesani.
Padressalerno era intento a dipingere con una particolare tecnica la parte inferiore dell’Altare mentre, sopra di lui, Angelo Lemmo, detto “piciongula”, con fare michelangiolesco, su un’asse di legno sospesa su due sostegni laterali, si dedicava alla tinteggiatura della volta bagnando il pennello in un secchio di pittura verde chiaro, anche questo posto sullo stesso asse.
Spennellando e ritoccando, Angelo, inavvertitamente (di questo sono certo), urtò il secchio il cui contenuto, si riversò…dove non avrebbe mai dovuto: sul cranio pelato del parroco. Intuendo le conseguenze preannunciate dal solito “miseriaccia infame!”, Angelo balzò giù dall’asse guadagnando velocemente l’uscita del tempio. Padressalerno riavutosi dalla sorpresa di lesa maestà perpetrata dall’incauto allievo imbianchino, si lanciò al suo inseguimento fermamente intenzionato a suonargliele: prima lungo le scale che portavano alla spiaggia, poi lungo la stessa fino a quando Angelo, per sfuggire all’inferocito inseguitore, fu costretto a tuffarsi in mare e nuotare verso il largo.
Gli aneddoti legati alla vita parrocchiale degli anni 60, e di conseguenza a Padressalerno, sono moltissimi e legati ai succitati e vari momenti della vita comunitaria come, ad esempio, quello della benedizione delle case che si svolgeva appena dopo la Pasqua. Il parroco veniva accompagnato da quattro o cinque chierichetti, in pratica tutti quelli che riuscivano a trovare posto nella Topolino. Io, che soffrivo di mal d’auto, cercavo in ogni modo di sedermi sul sedile anteriore per poter meglio uscire dalla macchina in caso di “necessità”, cosa che non sempre mi riusciva.
Di solito quando capitavo dietro, la mia autonomia era al massimo di tre curve, difficilmente riuscivo, causa l’assembramento e il caldo, ad arrivare sulla Panoramica. Il piccolo manipolo era necessario al prete sia per compagnia che per riportare alla macchina, e quindi in canonica, tutte le offerte in natura (uova, salami, verdura, pane ecc…) che i parrocchiani offrivano per la benedizione ricevuta. Quante uova fresche appena covate e bevute sul posto da Virgilio (Cicciò), non riuscivano ad arrivare nemmeno alla topolino mentre Padressalerno borbottava parole incomprensibili!
Una volta il padre del Conte Rivetti, Oreste, Aveva regalato alla chiesa quattro grossi ceri che il parroco aveva provveduto a sistemare ai lati dell’altare. La particolarità dei ceri era che la candela, lunga circa mezzo metro, era alloggiata in un tubo nel quale scorreva, dal basso verso l’alto, man mano che si consumava sospinta da una molla. Andava assolutamente evitato che la candela si consumasse tutta perchè, in questo caso, il marchingegno rischiava di essere espulso dall’alloggiamento come un proiettile.
Per questo motivo uno dei compiti dei chierichetti era quello di verificare lo stato della candela e, soprattutto, spegnerla al termine della funzione. Un giorno, mentre servivano messa Aldo Fiorenzano e Tanino Brando, il prete fece un cenno con la testa a Tanino indicando che uno dei ceri era quasi esaurito e voleva che Tanino lo spegnesse prima che avvenisse il lancio del mozzicone. Tanino annuì, come a intendere d’aver capito, e si portò dietro l’altare non per eseguire l’ordine ma per andare a chiedere (a gesti) lumi ad Aldo, non avendo intuito il da farsi. Aldo che, con le mani giunte e fare assorto, seguiva la messa, non riuscì ad aiutare il misero non avendo capito a sua volta il cenno del parroco. Tanino ritornò al suo posto senza aver eseguito l’ordine. Trascorsi alcuni secondi e Padressalerno, visibilmente contrariato, ripeté il cenno a Tanino che, a sua volta, non avendolo compreso, ripeté la scena precedente e, quasi in preda al panico, tornò sconsolato al suo posto. In quel momento, arrivata a fine corsa, la molla, come un tappo di spumante e relativo botto, sparò il mozzicone e in contemporanea Padressalerno assestò un manrovescio al povero Tanino che per il colpo finì gambe all’aria.
In innumerevoli altre simili circostanze l’episodio si sarebbe chiuso lì, ma non questa volta. La mattina seguente, infatti, la mamma di Tanino andò dal parroco, con aria minacciosa, dicendo che era l’ultima volta che avrebbe consentito il comportamento manesco del prete e che questi doveva ringraziare l’abito che indossava se aveva evitato lo stesso trattamento riservato al figlio. Uno degli ultimi aneddoti fu quello relativo all’incidente occorso alla macchina di Padressalerno. In quel periodo il Parroco usava per i propri spostamenti una A112 che, solitamente, lasciava parcheggiata vicino l’ingresso della chiesa.
Molte volte, a sua insaputa, mentre era impegnato nelle funzioni, alcuni dei ragazzi più grandi, dopo assere venuti in possesso delle chiavi, prendevano l’auto e andavano a farsi un giro per poi rimetterla a posto. Un giorno però non tutto andò per il verso giusto. Quella volta, infatti, Bernardino ‘i Luigina e Giannino Brando presero la macchina e si avviarono verso Fiumicello ma, giunti alla curva di Mancusi, per un’errata manovra, si schiantano contro un muretto. Nessuno aveva il coraggio di riferire l’accaduto a Padressalerno tanto che, mentre una delegazione guidata da Peppinu ‘u gabbillottu, si recò a Maratea dai confratelli del Parroco (a dire il vero molto divertiti della cosa) per intercedere e tentare di rabbonirlo, Bernardo e Giannino furono costretti a darsi alla macchia per sfuggire all’ira del prete.
Tra le cose che ricordiamo con più piacere vi erano, senza dubbio, i viaggi organizzati da Padressalerno: Pompei, San Francesco di Paola e San Giovanni Rotondo dove, per conoscenza personale, concelebrava messa con Padre Pio. Per questo e per tutto il resto, schiaffi compresi, avremo sempre un ricordo indelebile del collerico prete che ha scandito il periodo più bello della nostra infanzia prima che il progresso portasse via la spiaggia e con essa la meraviglia, malgrado la scarsità di mezzi, di “’nu munnu ca non ngè cchiù”…
Padre Raffaele Salerno (1914 – 2009)
Mitico Padressalerno…
Ma il vero mitico è Chiappetta!!!
Ho trascorso le vacanze estive quando ero bambina presso la casa di mio nonno a Maratea. Con zia Silvia andavamo a piedi fino al porto per fare il bagno. Ricordo quei luoghi benissimo con molta nostalgia. Non ho conosciuto il mitico Padressalerno ma il racconto che ho letto mi ha divertita molto per le vicende vissute dai chierichetti. Grazie per la vostra lodevole iniziativa.
“. Miseriaccia infame”………perché ci siamo persi????? Basterebbero un po’ di veri Padressalerno …. sarebbe un altra musica! Mah!!!!!!! Dove sono finiti i valori che un tempo erano il nostro pane??????Mi vergono di vivere questa modernità!!!! Con sincero affetto a tutti voi